Avremmo avuto bisogno di un po' di rigore storico per capire i tempi che vivevamo e le scelte che stavamo facendo, affinché i sogni e i miti non diventassero politicume ottuso
di Franco Cardini
Itaca, o da qualunque parte dell'Ellade veniate e vogliate far ritorno, cari camerati, tornateci voi. Io sono vecchio: e passata la settantina andar per mare è cosa da imprudenti. Alla mia età, d'altronde, si perdono tanti bei piaceri e tanti invidiabili vantaggi, forse non si diventa nemmeno troppo più saggi (anzi, per la verità c'è il pericolo di rimbambire...), ma in cambio si acquista l'impagabile diritto di dir ormai quel che si vuole.
Cari fratelli di non so più quale sponda, siamo stati felici anche quando eravamo o ci ritenevamo o fingevamo di essere degli Arrabbiati. In fondo, il mondo era nostro: di noialtri happy fews, di noi emarginati e ghettizzati, odiati e disprezzati, discriminati e perseguitati, ma anche Signori dell'Isola-Che-Non-C'è, Sovrani dell'Aghartha misteriosa, Custodi dell'Ultima Dimora Accogliente al di là della quale c'è l'Ombra che si allunga da est, Sentinelle dell'estrema ridotta che veglia sul Deserto dei Tartari. Ed era nostro anche l'Avvenire: quello del Mito e dell'Apocalisse, anche se non proprio quello della Storia.
Il tempo dei miti dei sogni e la delusione in agguato
Era una strana follìa, la nostra. Chi prima chi dopo, tra gli Anni Quaranta e gli Anni Novanta del secolo scorso, per mezzo secolo circa – e non è poco... - abbiamo continuato a viver intensamente e appassionatamente di politica e qualcuno anche a morirne: eppure, non è che facessimo sul serio politica nel senso proprio e corrente di tale termine. Quella, ci ripetevamo, erano i politicanti e i politicastri a farla: e il politicume non c'interessava. Erano i nostri miti, quelli che inseguivamo. L'Europa che non c'era mai stata anche quando era sembrato che ci fosse, gli dèi che muoiono e che risorgono di cui parla Drieu La Rochelle, la Nazione strettamente legata alla Giustizia Sociale, l'Europa consumata nel rogo di Berlino e schiacciata dai carrarmati sovietici per le strade di Budapest. La Tradizione risplendente di sole dorato e il Fascismo immenso e rosso.
Anche dall'altra parte, per noi boscevichi e borghesucci non erano nulla di concreto: erano grotteschi fantasmi creati nella Terra di Mordor, dove l'Ombra cupa scende. Non avevamo certo tempo di scender da cavallo per sbirciar che cosa mai si celasse ben nascosto sotto le pieghe del Capitale di Marx o dentro le casseforti di mister Adam Smith. A sistemar quella paccottiglia bastavano una riga di Nietzsche, un verso di Pound, un aforisma di Sorel. Com'è bello, al limite quanto è comodo, essere dei puri e assoluti Sconfitti! Che ebbrezza sentirci liberi dalle avvilenti responsabilità reali e concrete, esenti da mediazioni e da relativizzazioni, perfettamente intangibili dinanzi al sudore e al fango di chi, vincendo, è obbligato a sottostare al giogo umiliante del mondo e a sentirsi o a esser comunque chiamato a renderne conto!
E intanto, attorno a noi, si srotolava la Commedia Umana di chi invece viveva del nostro entusiasmo e del nostro amore per le Vette innevate. Avvocaticchi, funzionarielli e onorevolucci avvinghiati ai loro collegi elettorali, amministratori oculati del ghetto dove si agitavano bravi e onestitravetdel nostalgismo littorio e ragazzacci rissosi che si divertivano a provocar continue e sovente immotivate risse uno contro dieci a loro svantaggio, quindi “picchiatori” il più delle volte a loro volta picchiati. Loro si arrampicavano sulle rocce e lungo i rami del nostro entusiasmo; entravano in Montecitorio e in Palazzo Madama grazie ai comizi che noi presidiavamo di giorno e ai manifesti che noi attaccavamo di notte; distribuivano saluti romani, pacche sulle spalle e stentorei A noi! durante grevi cene cameratesche: e quindi, sottobanco, svendevano al politicantume clericale e moderato i voti raggranellati nel nome della Rivoluzione affinché venissero metabolizzati in moneta corrente e politically correct.Cioè in biglietti emessi dalla Banca del Trasformismo, assegni staccati all'Ordine dell'Inciucio, cambiali pagabili alla Borsa dello Scambio dei Piccoli Favori. Fu così che, da Michelini a Fini, tra Via delle Quattro Fontane e Via della Scrofa, si bruciarono i nostri entusiasmi e si consumarono le nostre illusioni.
Progressivi dolorosi risvegli
Ritualmente, a intervalli più o meno regolari, le nostre successive generazioni si svegliavano dal sogno incantato e se se andavano. Spesso sbattendo la porta; più sovente alla chetichella e a testa bassa. Chi entrava davvero e sinceramente in crisi, chi aveva paura di continuar a compromettersi, chi cercava un lavoro, chi si faceva una famiglia, chi pensava alla carriera, chi prendeva una tessera di partito che – a differenza di quella del MSI - gli garantisse un domani, chi si accorgeva di aver intanto cambiato idea e chi si rendeva conto di non averne mai avuta una al di là dei simboli e degli slogan, spesso démodés e di cattivo gusto. Qualcuno, come Roberto Mievilleo Adriano Romualdi, moriva. Qualcun altro – pochi per fortuna, come Franco “Giorgio” Freda su cui si è stesa la coltre della “morte civile”- scompariva inghiottito dai gorghi del pasticciaccio brutto del terrorismo e degli “Anni di Piombo”. Qualcun altro ancora – come l'autore di queste righe e, una quindicina di anni più tardi, Marco Tarchi – dopo qualche esperienza parapolitica “radicale” o “alternativa” approdava al mondo dello studio e della ricerca scientifica, che tutto sommato era l'unico che gli si confaceva.
Altri infine, come Roberto e Paolo Vivarelli o Beppe Vacca o Giulio Salierno o Carlo Mazzantini oStanis Ruinas o Antonio Pennacchi o i “ragazzi di vita” di Pierpaolo Pasolini, passavano in vario modo al “nemico” (ammesso che fosse quello il nemico): magari per un paradossale eccesso di coerenza e di fedeltà, facendo un percorso inverso ma in fondo soprattutto convergente e complementare rispetto a figure come Nicola Bombacci, come forse sarebbe accaduto a Berto Riccise non fosse andato lucidamente e disperatamente a cercar la Bella Morte.
Eppure, qualcosa era rimasto. Finché, politicantismo parlamentare e ipocrisia di federali e di funzionari a parte, le condizioni politiche ci obbligavano nel MSI e dintorni a un iterato nondum matura est, restava l'illusione di essere degli emarginati perché, in un mondo di vili e di corrotti, noialtri eravamo nonostante tutto migliori degli altri. Finché c'erano gli altri a considerarci diversi, a ripetere che il miglior fascista era quello morto, la nostra Voce poteva pur orgogliosamente dirsi quella della Fogna. Nell'immenso oceano delle idee confuse sì ma non certo poche, nel Grande Magazzino di noialtri Eversivi e Refrattari, c'era tutto e il contrario di tutto. C'erano il Sacro Romano Impero e la Vandea, la fedeltà al Re (“Dio guardi!”) e al Papa-Re, ma anche la Rivoluzione sociale e il mito – nato “a sinistra” contro il Trono e l'Altare, scivolato “a destra” contro la sovversione materialistica – della Nazione.
Cosa erano la destra e la sinistra?
Che cos'era dunque la Destra, che cos'era la Sinistra? Se lo sono chiesti in tanti, ce lo siamo chiesti in tanti, prima di Giorgio Gaber. A suo tempo, qualcuno ha dato perfino ascolto ad Armando Plebe e un po' tutti abbiamo giocato al quiz proposto da “L'Espresso”, quello col cane di destra e il gatto di sinistra, la vasca da bagno di destra e la doccia di sinistra, il bluson noir e gli stivali a punta di destra e l'eskimo innocente di sinistra, Battisti (nel senso di Lucio) di destra e Guccini di sinistra.
Quando avevo vent'anni e mi piacevano Nietzsche, Sorel e un po' anche Bakunin, ero missino ma la destra non mi diceva nulla: mi piaceva il gesto di D'Annunzio che scavalca i banchi parlamentari correndo a sinistra, “verso la vita”, mentre sapevo bene che Mussolini aveva scelto per la sparuta pattuglia dei deputati fascisti entrati di fresco a Montecitorio la destra come cosciente provocazione contro la “Destra” e la “Sinistra” storiche dell'Italietta.
Se il pugnale del Luccheni a lacerar la carne dell'imperatrice Elisabetta mi appariva già da allora un sacrilegio blasfemo, vedevo in cambio in Gaetano Bresci che spara al “Re Buono” un giusto vindice dei cannoni dell'infame Bava Beccarispuntati a zero contro la povera gente: e un giovane geniale universitario,Gabriele Truci – filosofo e musicologo, beethoveniano di stretta osservanza, caduto a ventitré anni dal cielo sullo Starfighter che guidava come sottotenente d'aeronautica – mi confortava nel mio “fascismo di sinistra” figlio sia pur discolo della gloriosa Unione Sindacale Italiana; contemporaneamente a quella scelta storico-politica, però, mi affascinava la “Destra cosmica” proposta da Attilio Mordini, da Fausto Belfiori, da Primo Siena: gli eletti alla Destra del Padre, il Destra versusSinistra come il Sopra divino contrapposto al Sotto infero, Luce contro Tenebra. Del resto ero cattolico, come con qualche occasionale debolezza sono grazie a Dio sempre rimasto: e mi sentivo fermamente, solidamente ancorato alla Dottrina Sociale della Chiesa alla quale amavo avvicinare la bozza di costituzione della Repubblica Sociale, i “Diciotto Punti di Verona”, almeno per i capitoli dedicati appunto all'economia e alla socialità. Il mio ideale sarebbe stato la quadratura del cerchio, la composizione di quell'ossimorico enigma, la conciliazione tra Sinistra storica e Destra ontologico-metafisica.
Ma ci si poteva accontentare anche di meno. Per molti di noi, la Destra stava nell'inginocchiarsi dinanzi all'Altare della Patria; per molti altri, nel sogno di vederlo saltar in aria. Si stava “a destra” con De Maistre e con Donoso Cortés, con Schmitt e con De Unamuno; ma anche con Sorel e con D'Annunzio, con Mussolini e perfino con Perón; qualcuno, tra Anni Settanta e Anni Ottanta, decise di stare “a destra” perfino col “Che” Guevara. Si discuteva sulla differenza tra “essere di destra” e “stare adestra”. Si evitava accuratamente di porci qualche imbarazzante questione: stendevamo un velo pietoso, e forse anche un po' ipocrita, su quello che per analogia con il “socialismo reale” potremmo definire il “fascismo reale”, quello del compromesso con il capitale, della repressione poliziesca, del colonialismo tardivo ma non meno feroce, del razzismo e del genocidio.
In quanto “fascisti immaginari”, ci autoassolvevamo da colpe e da doveri di critica: la nostra emarginazione ce lo consentiva in quanto non c'imponeva né una discussione né una verifica che, al di fuori di noialtri quattro gatti, non sarebbero interessate a nessuno: e ciò, nella già incipiente “società dello spettacolo”, ci procurava la brezza maniacale e il senso di onnipotenza-impunità che sono propri, appunto, del delirio degli impotenti. Eppure il nostro sogno, sia pure irrealizzabile, era a modo suo nobilissimo: la conciliazione fra Tradizione, Nazione e Giustizia Sociale; e quindi l'avventura cavalleresca, Ungern e Harrer, Lawrence d'Arabia e i mercenari “cuori-di-tenebra” nel Katanga.
Mitologia, mitopoietica, metapolitica, antipolitica. L'onore che si chiama fedeltà e la libertà più assoluta e insofferente di limiti. La frontiera onirica sul ciglio della quale il Monarca e l'Anarca s'incontrano e si abbracciano.
Ci sarebbe bastato un po’ di rigore storico
Quel che oggi mi viene al riguardo da pensare, e so bene che questa è la riflessione di un vecchio insegnante, è che al riguardo sarebbe stato necessario almeno un po' di rigore storico: e forse, come si recita nel seder pasquale ebraico, “ci sarebbe bastato”, anche se in realtà ignoro fino a che punto sarebbe stato sufficiente. Ma se ne avessimo disposto di un pizzico in più avremmo visto bene, e ce ne saremmo accorti con chiarezza, come la radice dei nostri malintesi e dei nostri disagi stesse tutta – Zeev Sternhell lo ha spiegato con grande lucidità – nel groviglio di eventi e nel piano inclinato di malintesi maturato tra la “rivoluzione” del 1830 e quella del 1848: quando le borghesie europee, impaurite per l'ascesa del Quarto Stato, avevano mischiato le loro idee, le loro aspirazioni e i loro interessi “nazionali” con una buona dose di quelle istanze “tradizionaliste” che fino ad allora erano state proprie di una Destra cattolica, legittimista e comunitarista (quella che tra Sette e Ottocento aveva agito in Vandea, in Navarra, nell'Italia delle “insorgenze”, in Irlanda, in Svizzera...), che esse avevano fino ad allora odiato e considerato la loro massima nemica. Da quel foedum impiustra cascami della Tradizione e borghesie “nazionali” era derivato tutto il resto: quello era stato – cari camerati che volete tornare a Itaca – il “cavallo di Troia” attraverso il quale e con l'alibi della paura del “Quarto Stato” il capitalismo, il borghesismo e il liberismo si erano insinuati in quel che restava del bastione antimoderno compromettendolo del tutto.
Perché la radix omnium malorum, non dimentichiamolo, è la rivoluzione della Modernità intesa anzitutto come individualismo e come Volontà di Potenzaconnessa con l'inversione – maturata tra XII e XVI secolo e sfociata nella follìa conquistatrice e rapinatrice del mondo – del rapporto tra produzione e consumo, quindi con il primato dell'economico e con il processo di secolarizzazione che ha desacralizzato il potere politico e del quale le Chiese cristiane storiche dell'Occidente sono esse stesse corresponsabili.
Rivoluzione della Modernità: condannati a consumare per produrre vs homo religiosus e homo politicus
Individualismo e Volontà di Potenza che ci hanno strappato dall'antica, millenaria regola secondo la quale si produce per consumare; che ci hanno obbligato a consumare sempre di più per poter produrre sempre di più in una ruota dei dannati che ci ha costretti a inghiottire il mondo senza per questo saziarci; che ci ha resi schiavi delle regole del profitto e del progressismo faustiano, la regola del quale è la distruzione progressiva e irrefrenabile di qualunque “cultura del limite”. La grande apostasia è cominciata quando l'Europa ancora cristiana ha definitivamente accantonato la prospettiva scolastica che impostava quello trahomo e communitas come un rapporto tra imperfezione e perfezione, e quindi della perfezione della comunità di fronte all'imperfezione del singolo individuo – che non diventa persona se non nella sua dimensione sociale, nel suo rapporto con gli altri – fondata sulla base di un'unità e di una gerarchia esistenti nella società in analogia con quelle che reggono il cosmo: perché “sicut homo est pars domus, ita domus est partis civitatis: civitas autem est communitas perfecta, ut dicitur in I Politicae. Et ideo sicut bonum unius hominis non est ultimus finis, sed ordinatur ad bonum commune, ita etiam et bonum unius domus ordinaretur ad bonum unius civitatis, quae est communitas perfecta”; e di conseguenza, “bonum proprium non potest esse sine bono communi vel familiae vel civitatis aut regni” (Thomae AquinatisSumma theologiae, I.a. II.ae, q. XC, art. 3 e II.a II.ae, q. XLVII, art. 10, sulla scorta della Politicaaristotelica).
Tutte le grandi civiltà dell'antichità e per quel che ne sappiamo dello stesso medioevo occidentale si sononaturaliter ordinate a questo principio che Tommaso lucidamente codifica in pieno Duecento: qui sta il nucleo forte e profondo della natura umana, dell'homo politicus che in quanto tale è anche homo religiosus, quindi del fondamento stesso di quel “diritto naturale” che oggi, lontano dal dogma e a oltre mezzo millennio dall'avvìo della rottura apostatica, appare tanto arduo non solo a restaurarsi, ma anche a definirsi per il presente. Poiché il faustismo, una volta accettato sia pur in parte e ancorché in inizialmente limitata misura, divora inarrestabile tutto e conduce fatalmente alla legittimazione dell' homunculus.
In fondo, cari amici, sia pure con molti errori e con una prospettiva neopagana e immanentistica di fondo che quanto meno a me cattolico lo rendeva inaccettabile, tutto ciò era stato sul serio spiegato con una qualche efficacia nella Rivolta contro il mondo moderno di quell'a noi ben noto Innominabile Jettatorio Barone dal magistero del quale in un modo o nell'altro almeno noialtri nati fra il '30 e il '60 siamo stati tutti toccati e al quale dobbiamo pertanto esser tutti grati.
Il potere ha logorato chi non lo aveva …
Ma ha ragione il divo Giulio (Andreotti): il potere logora davvero soprattutto chi non ce l'ha. Privi di Maestri e provvisti invece solo di rozzi metodi artigianali, lontani dai centri nei quali il pensiero poteva essere agevolmente ed efficacemente elaborato, ridotti alle nostre piccole “università” autarchiche e autogestite nei covi di periferia in cui si studiava seguendo maestri a loro volta emarginati e frustrati e utilizzando vecchi libri comprati di seconda mano su equivoche bancarelle (come l'”eskimo innocente” di Francesco Guccini, quei modesti acquisti erano “dettati solo dalla povertà”), non siamo stati – sia pur magari senza colpa – all'altezza della situazione che abbiamo dovuto affrontare nel mezzo secolo tra la fine della seconda guerra mondiale e l'effimero fallace avvento dell'era della Megapotenza Unica mondiale e del “pensiero unico”. Stavamo passando, a dirla con Zygmunt Baumann, dalla “Modernità solida” ben certa dei suoi valori individualistici ed economicistici alla “Modernità liquida”, o “Postmodernità”, che li avrebbe invece messi in discussione: avremmo dovuto egemonizzare questa fase di passaggio, invertire magari il supposto “senso” del ciclo storico, contestarlo e postularne perfino la reversibilità. Non ne siamo stati capaci. Ci ostinavamo, per provincialismo e per ignoranza, a pensare e ad esprimerci ancora in termini e per moduli tardottocenteschi e a baloccarci con oziose desuete questioni mentre il mondo se ne andava per conto suo. Le lobbies multinazionali lo stavano divorando e inquinando, eppure noi non ce ne accorgevamo. La follìa dello sfruttamento e la cecità dell'iperprogressismo tecnologico facevano della terra un immenso deserto e lo chiamavano Libertà e Democrazia, mentre noialtri fascisti immaginari continuavamo ancora ad accapigliarci per stabilire se si dovesse stare con le Giacche Blu o con quelle Grige, con i garibaldini o con i Borboni, con D'Annunzio o con Mussolini, con il fascismo-”movimento” o con il fascismo-”regime”, con i falangisti o con i carlisti, con le SA o con le SS, con i “berretti verdi” o con Giap e Ho-Chi-Min, con il socialismo sionista dei kibbutzim o con il “socialismo arabo” di Nasser. Certo, per lunghi anni il proscenio è stato occupato dalla “guerra fredda” e ci siamo dovuti adeguare; poi sono emersi il “Terzo” e il “Quarto Mondo”, ma noi eravamo quasi del tutto all'oscuro delle colossali problematiche sottese alla decolonizzazione e ai relativi business. Colpa nostra, ché l'ignoranza non può mai essere una valida scusa: eppure, tant'è.
… e annientato chi lo ha poi conquistato
Ma è poi sorta l'alba livida del disincanto: e dopo di essa abbiamo perduto il diritto di fingerci innocenti. Sono arrivati i giorni in cui l'uva è miracolosamente sembrata infine matura per noialtri piccole volpi. Bastava camuffarsi solo un pochino, cedere su qualche principio che l'opportunità presentatasi c'invitava a considerar secondario, abbandonare certi stanchi ritualismi e certe frasi fatte, vendere appena qualche brandello dei nostri inutili sogni romantici, et voilà: ecco che chi fino ad allora aveva sognato come massimo traguardo della sua vita un posticino di consigliere comunale si trovava sottosegretario; chi aveva sperato ardentemente di diventar segretario federale faceva trionfale ingresso in Senato senza aver nemmeno capito bene come ci fosse arrivato; chi aveva gridato al miracolo perchè i brandelli di lottizzazione di cui gli era toccato qua e là di godere lo avevano portato al livello di caposervizio, ora si vedeva fiondato dietro la scrivania di mogano e cristallo dei Direttori Megagalattici di Rete.
Ed è così che il Burattinaio di Arcore, comprandosi a un tanto al chilo il nostro supposto intemerato rigore e la nostra supposta specchiata e ingenua onestà, ci ha aiutato a liberarci dai miti e dai sogni: prima Fiuggi, poi la disgregazione della solidarietà interna frammentata in una miriade di cosche e di nicchie, infine il Magnus Opus, ilsolve et coagula del Popolo delle Libertà dove tutte le vacche son bige e dove gli ex bravi ragazzi che per decenni si erano rifiutati di piegarsi al mito conformista della Resistenza scoprivano lietamente – insieme con le auto blu, gli uffici ai piani alti e magari qualche consistente regalino piovuto da chissaddove - il fascino di “quei bravi ragazzi venuti in Europa a combattere per darci la libertà” e applaudivano all'esportazione della democrazia nel Vicino Oriente, incuranti di quel po' di “fuoco amico” e di “danni collaterali” che ciò poteva comportare. Qualcuno, più audace, si spinse oltre fino all'apologia dei libertarians statunitensi paragonati ai cavalieri medievali e alla lode della magna Europa liberal-liberista d'Oltreoceano proposta come esito della Tradizione da ex “reazionari cattolici” tutti d'un pezzo frettolosamente convertiti al Verbo theoconservative.
Potrei parlare a questo punto, e con ottima cognizione di causa, di alcuni di voi: potrei snocciolare, facendo nomi cognomi date e circostanze, la sequenza delle sue scivolate, dei suoi compromessi, delle sue furberie, della ventata di megalomania che lo aveva preso nei mesi nei quali tutta Roma dal Gianicolo a Via Veneto e dalle terrazze ai salotti (altro che borgate, altro che Acca Larenzia!...) gli pareva sua e aveva telefoni e segretarie o sperava di averne a breve; e sarebbe facile ironizzare sui suoi eroici furori ora che tutto è finito e che qualcuno si sta dimenticando come a parte le Uri nel Paradiso di Allah – che sia sempre benedetto il Suo Nome – nessuno possa riconquistare la verginità perduta. Non lo farò, per un senso di pietas.
Vi parlo anche di me
Vi parlerò invece, con maggior correttezza e più approfondita cognizione di causa, del caso che conosco meglio: il mio. Perché no? Per alcuni mesi, fra '94 e '95, ho accettato di rimettermi in pista dopo che, trent'anni prima, ero uscito dal MSI fiorentino e dalla Direzione Nazionale Giovanile, ero stato nella Giovane Europa di Jean Thiriart e avevo avuto la mia brava “primavera rossa”. Dai primi Anni Settanta mi ero ritirato dalle scene politiche d'ogni sorta, pensando solo a studiare e a portar avanti una modesta attività pubblicistica: avevo fatto un'eccezione solo per le iniziative di Marco Tarchi, che nei primi Anni Ottanta si erano, et pour cause, attirate le ire e le scomuniche di Norberto Bobbio e della sua Chiesa, e per ”Il Sabato”, che allora appariva una promettente tribuna di anticonformismo e di libertà. Ma fui attratto dall'invito di “rientrare in pista” nel fatidico 1994.
Per breve tempo, allora, sperai che Irene Pivetti potesse davvero diventare la nostra nuova Giovanna d'Arco e la nostra nuova Eva Perón; più tardi, ho sinceramente lavorato insieme con Marzio Tremagliaalla costruzione di un soggetto politico-culturale serio e credibile, e ancor oggi, quando ripenso ai suoi quarant'anni stroncati, mi pongo inutilmente seri problemi di teodicea; e sulla sua tomba, come su quella dell'indimenticabile fraterno amico Marco Tangheroni, ho deposto le mie cinque rose rosse, quelle che i falangisti dedicano ai camaradas fallecidos in ricordo delle Cinque Piaghe del Signore e delle cinque frecce di Ferdinando il Cattolico.
Ci ho sperato, in quelle due ultime occasioni: l'amico Marco Tarchi, più giovane anagraficamente ma tanto più saggio e prudente di me sul piano caratteriale e tanto più rigoroso di me su quello intellettuale, mi aveva pur diffidato dal farmi illusioni. Aveva ragione lui. Non mi pento tuttavia di quegli esperimenti, come non mi pento delle sperimentazioni culturali tentate con Renato Besana e con Beppe Tagliente (il “Toson d'Oro” di "Vasto”) e dell'avventura di “Identità Europea” avviata con Adolfo Morganti e che ancora continua, per quanto in quel contesto mi sia autodegradato a semplice iscritto.
Per tutte queste cose non ho nulla da rinnegare, nulla di cui vergognarmi, nulla per la quale fingere miserabili amnesie. Sono stato petit commis d'état come consigliere di amministrazione RAI voluto dalla Pivetti e come consigliere di amministrazione di Cinecittà scelto da Veltroni per quanto sapesse benissimo che io ero (parole sue) “di un'altra parrocchia” rispetto alla propria. Conservo molta riconoscenza per la fiducia che entrambi mi hanno accordato e per le opportunità che mi hanno offerto. Ho cercato di ricambiarle facendo del mio meglio, cioè lavorando con coscienza e con onestà: posso affermarlo serenamente, ed è obiettivamente innegabile che ne sia uscito a testa alta. I riconoscimenti ottenuti, e documentati, lo provano e lo confermano.
Eppure il potere, che logora soprattutto chi non ce l'ha, logora tuttavia sempre e profondamente chi lo detiene, sia pure in modesta se non minima misura. Nelle occasioni che mi sono state offerte, ho fatto correttamente quel che potevo e dovevo. Ho anche cercato di cambiare qualche piccola cosa: e lì ho fallito, o il mio successo non è stato né incisivo né duraturo quanto sarebbe stato necessario. Mi guardo quindi bene dal propormi ad esempio: e so bene che, in queste cose, la coscienza pulita non basta. E' doverosa e necessaria, ma non sufficiente. Grazie a Dio, non ho né il dovere, né tanto meno il diritto, di giudicare nessuno.
La verginità perduta
Tuttavia va detto, cari camerati, che ci sono tanti modi di perdere quella verginità che abbiamo tutti perduto e che certo nemmeno le acque, le nubi, gli olivi e le rocce di Itaca non potrebbero certo aiutarci a recuperare. Si può perdere la verginità per amore, per passione, per paura, per tornaconto, per leggerezza, per avidità, per ebrezza o per qualche stato di coscienza alterata, per vanità, per desiderio carnale, per gioco, per curiosità, per illusione, per violenza propria, per violenza altrui. Ma, una volta perdutala, indietro non si torna (come diceva Lui). Ormai la via dell'Eden e quella dell'Aghartha sono irreversibilmente smarrite, l'incanto è irrimediabilmente rotto: e chi poi in un modo o nell'altro, per un motivo o per un altro, sia stato anche solo qualche settimana sulla stessa barca degli Scajola e dei “Trota”, delle Cafagna e delle Santanché, dei Cicchitto e dei Verdini, chi magari entro certi limiti e fino a un certo punto senza nemmeno rendersene conto abbia retto il sacco ai ladri e ai corrotti e si sia reso loro complice (nel nome di che cosa, poi? Dell'anticomunismo? Della diga contro il fondamentalismo islamico?) non potrebbe più tornare a Itaca nemmeno se davvero lo volesse con tutte le forze. Non entra nella reggia del divino Ulisse chi ha visto anche alla lontana quella di Arcore; non può più apprezzare il profumo del vino e dell'olio dell'Egeo chi odora anche alla lontana di bunga bunga.
Quanto a me, poi, ho molta simpatìa per il re della piccola sassosa isola vicina a Cefalonia, per l'Orditore d'Inganni che ha osato parlare con i morti e che ha molto sofferto. Ma non dimentico che egli è anche l'inventore del cavallo a causa del quale quella che in tempi ormai lontanissimi ho avvertito come la mia prima vera patria interiore è stata conquistata e distrutta.
Le sconfitte e le guerre perdute.
Voi, cari camerati, vi sentite ancora e nonostante tutto dalla parte di chi ha perduto la seconda guerra mondiale, e qualcuno di voi sostiene di aver perduto anche la prima: io, invece, le ho perse tutte. E qualcuna irreversibilmente: a dirne una, avrei preferito di gran lunga (e datemi pure del filomusulmano) barattare la vittoria del 1571 con la sconfitta del 1588, veder le galee di Juan de Austria e del doge Venier colare a picco nelle acque azzurre di Lepanto pur di assistere poi al trionfo dei galeoni della Invencible Armada sui plumbei flutti dell'Atlantico, là presso alle coste inglesi. Lepanto non ha cambiato il corso della storia: il prevalere di Filippo II su Elisabetta avrebbe forse potuto. Così come forse lo avrebbe cambiato la vittoria di Antonio su Ottaviano nel limpido specchio marino di Azio, poco più di un millennio e mezzo prima di Lepanto. Ne abbiamo perdute, di occasioni; ne abbiamo avute, di scalogne: ma che nessun nipotino di Hegel venga fuori, per piacere, a parlarmi di senso della storia, di occulti eppur necessari disegni immanenti. L'Imponderabile paretiano, quello sì: ma esso altro non è se non quel che i maghi di Faraone, dinanzi alla verga serpentina di Mosè, definivano ezbà Elohim, il dito di Dio...
Comunque, da parte mia, non ho atteso certo la débacle della Monarchia di Spagna per avviare la mia carriera di avvocato di tutte le cause perse. E non ho atteso nemmeno la sconfitta di Serse a Salamina: per quanto ancor oggi pianga a calde lacrime sullo smacco inflitto al Gran Re da quattro rissosi chiacchieroni greci. Ho cominciato a perdere le guerre già da prima: fino da subito, molto da prima che il contadino teppista Romolo assassinasse il suo libero fratello, il pastore Remo (ci avete fatto caso, come diceva il grande Aldo Fabrizi, che la storia di Romolo e Remo somiglia paro paro a quella di Caino e di Abele, sempre col sedentario assassino e con il nomade assassinato: e non vi dice nulla, tutto questo, nei nostri tempi di gommoni che approdano a Lampedusa?).
Sto con Ettore contro Achille
Ho cominciato a capire da che parte sarei stato e avrei dovuto stare, e che stare da quella sarebbe stata la mia sempiterna condanna, fin da quando raggomitolato su un banchino di seconda media ho visto il mio signore ferito a morte, lordo di sangue e di fango, legato e trascinato attorno alle mura di Troia dal carro di un macellaio isterico destinato invece, lui, a diventare nei secoli l'eroe della Grecità e della Modernità, con tutti i brigantaggi e le fregature che da lì sono discesi.
E ora che ho passato i settant'anni, sento di perdere di nuovo la mia guerra ogni volta che un piccolo afghano viene ammazzato “incidentalmente” dai Portatori di Libertà (… poi però la NATO si scusa del disagio arrecato...) nell'indifferenza dei borghesacci che finanziano con le loro tasse gli elicotteri e i droni assassini; ogni volta che un bambino del Sahel muore di sete o uno nigeriano di AIDS mentre da noi c'è chi nuota ogni mattina in una piscina olimpionica inquinando una quantità d'acqua che potrebbe bastare a placar la sete di cento villaggi e mentre un colosso del traffico di diamanti realizza in un solo anno oltre 500 milioni di dollari, in gran parte dovuti al drenaggio di profitti realizzati in Tanzania (dov'esso è ilpartnership al 75% con il governo locale) mentre l'Africa muore di fame e non solo di quella. E, per quanto sappia bene quanto ineleganti siano le autocitazioni, v'invito al riguardo a dare un'occhiata a Capire le multinazionali. Capitalisti di tutto il mondo unitevi di Franco Cardini e Stefano Taddei (Rimini, Il Cerchio, 2012), che vedrete senza dubbio ben poco propagandato dai media ma del quale stiamo già preparando la prima ristampa.
Lasciatemi ai sassi aridi della mia Troade
E veniamo al dunque. Ho discettato abbastanza di Destra e di Sinistra; ho assistito a troppi onanismi intellettuali di mediocre qualità attraverso i quali si giustificavano di fatto la corruzione e l'ingiustizia. Ho vissuto la vita intera tra i libri: molto spesso, anche buoni libri. Ecco perché, cari camerati, la vostra paccottiglia erudita, le vostre smanie palingenetiche ora che il momento della cuccagna è passato, la vostra riscoperta a scoppio ritardato della morale, non m'interessano più. Dite di voler solcare i mari, e non c'è dubbio che molti fra voi abbiano davvero, in buona fede, bisogno di una boccata d'aria pura: eppure molti altri hanno solo l'aria dei furbi topolini che hanno abbandonato la nave un attimo prima che affondasse, o dei topoloni stupidi che non si sono accorti in tempo utile che essa stava affondando e che adesso non sanno più come fare.
Nella vostra Itaca, se mai davvero ci arrivaste, non riuscireste nemmeno a riorganizzare un Campo Hobbit degno di questo nome. E intanto il mondo continuerà a bruciare senza di voi, ma nella vostra noncuranza se non addirittura con la vostra rinnovata complicità: non hanno forse anche molti di voi applaudito ai Gasparri e ai La Russa che blateravano, a proposito dell'Iraq, di “esportazione della democrazia”? Il vostro Ulisse tessitor d'inganni, cari camerati, non vale nemmeno un'unghia di madre Teresa di Calcutta. Da qualche parte, tra l'Africa e l'America latina, c'è gente che lavora per gli Ultimi della terra, che soffre con loro: gente come i “medici senza frontiere”, come quelli di Newe Shalom, come i tanti volontari che lavorano anonimi e non retribuiti ad alleviar sofferenze. Quelli sono i veri Cavalieri, mentre molti di voi amano ancora perder tempo attardandosi sui desueti brandelli del “conflitto di civiltà” e baloccandosi con i Neotemplari.
Ho molta, magari perfino troppa, stima, e molto, magari perfino troppo, affetto per molti di voi. Però, quando parlate con finta nostalgia di un Passato mai esistito e di un Futuro che non ci sarà mai e che in fondo non v'interessa, mi annoiate. Vi saluterò con affettuosa mestizia, mentre volgete le vostre prore verso Itaca. Ma vogliano gli dèi che ivi approdati non ci troviate invece, accampati tra quegli omerici scogli, il teschiuto Sallusti che si fa un drink con la siliconica Santanchè, o l'ohimè neocredente Ferrara che prende il sole con la signora dall'Olio all'ombra di un confortevole padiglione decorato stars and strips, o qualche neoconservatore in shorts immerso nell'esegesi di una dotta pagina di Léo Strauss (chi era costui?), o qualche incravattato adepto nostrano del nobile sodalizio lusitan-brasileiro “Tradiçao, Familia, Propriedade” che vi spiegherà con sussiego quale sia l'alta funzione sociale del latifondo accompagnando la sua lezione con appropriate citazioni tratte da Giovanni Calvino ma travestite da Russell Kirk. Quello sarà il Club Méditerranée che meritate.
Non invitatemici. Mi piace guardar il mare: ma il rullìo delle barche mi dà la nausea, il pesce non mi piace e non so nemmeno nuotare. Lasciatemi ai sassi aridi della mia Troade, alle memorie del mio Ettore domatore di cavalli, al riflesso della pira ardente che ne ha disperso per sempre le ceneri nel cielo.
"Ho scelto di essere un poeta troiano.
Appartengo risolutamente al campo dei perdenti.
I perdenti che sono stati privati del diritto
di lasciare traccia della loro disfatta.
Del diritto di proclamarla.
Voglio parlare di questa difatta:
che non ha niente a che fare con la resa".
(Mahmud Darwish, poeta palestinese)
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