Caro Galli della Loggia,
non è affatto strabiliante, come tu scrivevi ieri sul Corriere della Sera, che la destra non si riconosca in Monti, così sobrio e moderato come i notabili della destra storica.
Lascio da parte le ragioni arcinote e contingenti: il governo dei tecnici fu calato da fuori e dall’alto e scalzò un governo di centro-destra eletto democraticamente. E lascio da parte anche la delusione per il suo operato: molte tasse e pochi tagli, troppe incertezze e scarsa attenzione anche a un elementare principio di destra liberale: anche se aumentano le tasse il prelievo fiscale diminuisce se si punisce chi investe, se si colpisce chi compra. Ma lasciamo da parte tutto questo, e veniamo al cuore del problema che sollevi. Ci sono buone ragioni di principio e di fatto che rendono incompatibile Monti con la destra, anche nella versione estesa del centro-destra. Il centro-destra ha avuto vita e consenso solo quando non è stato espressione di minoranze, di salotti e di poteri, ma quando ha sposato il primato della decisione politica e della sovranità nazionale e popolare. Non solo in Italia, anche in Francia con De Gaulle, in Spagna con Aznar, in Germania con Kohl. L’antagonista della destra di oggi non è il comunismo operaio e il proletariato ma la nuova borghesia radicale. Anzi per essere più precisi, l’antagonista della destra è il patto tra la sinistra politico-ideologica e la destra tecnico-economica, che idealmente fu sancito a Bologna tra Monti e il partito de la Repubblica ; a una cosa del genere, che potremmo chiamare la Bolognetta, dopo la svolta della Bolognina, siamo arrivati tramite Napolitano, con Casini e Fini nel ruolo di mosche cocchiere. La destra economica da sempre è stata avversa alla destra politica ed estranea alla destra morale. E Monti è un commissario rispettabile, ma legato per indole e curriculum ai circoli internazionali che sappiamo. Possiamo accettarlo come Eduardo accettò ’A nuttata , sapendo che passa, e che farlo cadere peggiorerebbe ulteriormente le cose. Ma non chiederci di sposarlo. La destra che tu e il Corriere ogni tanto profilate, è una destra di minoranza liberale, che odora di cent’anni fa, cioè prima della democrazia di massa, sobria e rigorosa quanto inefficace e impopolare. Senza tirare in ballo il fascismo, la «destra» nella Repubblica italiana si è affermata o col centro cattolico-popolare, cioè con i democristiani, o con la destra sociale, cioè nazionale e popolare, a volte anche monarchica ( il caso Lauro a Napoli). I liberali, pur degni, non incisero mai in modo significativo nella storia della Repubblica italiana, a parte alcuni isolati galantuomini. La destra, anzi il centro-destra, in Italia ha una sua storia e anche precisi riferimenti. Vuoi i nomi? Una destra larga e viva nel quadro bipolare si può richiamare, secondo le diverse sensibilità, a politici come Fanfani, Craxi, Pacciardi, Almirante, a tecnici come Enrico Mattei o Ettore Bernabei, perfino a leghisti come Miglio (e a qualche Papa). Tutti accomunati da quella linea decisionista, nazional-popolare, che assegnava alla politica la sovranità, non alla tecnica, alle banche o all’economia. E non è solo un retaggio fascista o peronista: anche i conservatori, da Burke a Tocqueville, fino a Fisichella, hanno sempre criticato il potere del denaro sulla politica e hanno sempre difeso la sovranità della tradizione su quella finanziaria. Quando degenera, quella linea si fa populista o popolana; ma se si parla di deriva populista nel centro-destra italiano si deve avere l’onesto coraggio di dire che dall’altra parte non si contrappone la democrazia liberale, bensì la deriva oligarchica, ovvero il patto implicito o esplicito tra i poteri economici e le caste intellettuali e giudiziarie, partitiche e sindacali di sinistra. E quanto a deriva populista, Di Pietro, Grillo e Vendola non ne sono certo immuni.
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