lunedì 2 luglio 2012

Intellettuali di destra è il momento giusto di riscendere in campo

Vent’anni fa, in una fase di crisi della politica, la cultura non allineata a sinistra conobbe una grande vitalità poi scomparsa. È ora di ritrovarla Quell’estate del 1992 l’Italia era in ginocchio. Crollava pezzo su pezzo la prima Repubblica, finivano in galera i cassieri dei grandi partiti, si sgretolavano la Dc e i suoi alleati, sopravviveva il Pci sotto altro nome, montava l’antipolitica, s’invocavano i tecnici all’orizzonte, veniva svenduto il patrimonio pubblico del Paese, l’industria veniva coinvolta nell’onda nera della crisi e della corruzione che porterà poi ai sinistri suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mafia uccideva Falcone e poi Borsellino. Cresceva a nord la Lega mentre l’Msi vivacchiava ai suoi minimi storici e i referendum di Segni e la Rete di Orlando scuotevano la vecchia Dc già picconata da Cossiga, uscito da poco dal Quirinale. C’era poco da sperare che nascesse qualcosa sul versante opposto alla sinistra. E nessuno avrebbe allora immaginato che due anni dopo Berlusconi avrebbe vinto sulle ali della Lega nord e della Destra nazionale. Ma nel frattempo, la cultura non allineata a sinistra cosa faceva? No, non dormiva né si defilava, e il suo ruolo in quell’interregno non era poi del tutto irrilevante, anzi. Io vorrei ricordare che a quella strana alleanza si arrivò anche per opera di non pochi vituperati professori e non solo loro. Vi dice nulla Gianfranco Miglio nella Lega? E Domenico Fisichella nella nascita di Alleanza Nazionale? E Giuliano Urbani ma poi anche don Baget Bozzo, Marcello Pera, Lucio Colletti, Antonio Martino, Vittorio Mathieu, Saverio Vertone, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa in Forza Italia, nella destra Paolo Armaroli, con la Lega Marcello Staglieno? Non tutti furono ornamentali, soprammobili decorativi, anzi. E vorrei ricordare che nell’estate del ’92 prendeva corpo una voce che avrebbe avuto un ruolo di battistrada nella nascita del centro-destra. Dico l’Italia settimanale che poi debuttò nell'autunno di vent’anni fa. La fondai in quell’estate del ’92, dopo aver coagulato un piccolo mondo di lettori e di firme con Pagine Libere. L’Italia settimanale ebbe un triplice ruolo. Risvegliò la destra prepolitica dal sonno nostalgico e dal destino di scomparsa a cui si sentiva votata, attraverso un linguaggio spigliato e un’impronta giovanile e interventista. Fu trasgressiva sia nei recuperi proibiti che nelle contaminazioni, negli incroci. In secondo luogo, cercò di mettere insieme mondi e personaggi diversi, da Giorgio Albertazzi a Vittorio Sgarbi, da Gustavo Selva allo stesso Fisichella, da ex democristiani a neoleghisti (scriveva pure la giovane Irene Pivetti), da firme storiche della destra, come Accame, Cardini, Gianfranceschi, Cattabiani, Quarantotto, De Turris, Besana, Garibaldi, Mazza, Del Ninno, Malgieri, Nistri, Solinas, Cabona, Buttafuoco a battitori liberi come Massimo Fini, Oliviero Beha e Vittorio Messori, poi Guerri, Squitieri, più vari giovani redattori. In terzo luogo l’Italia settimanale si prefisse anche tramite la Fondazione Italia di far nascere in una prospettiva bipolare quell’ibrida alleanza tra il versante non travolto da tangentopoli della Dc e del craxismo, il vecchio Msi e quei pezzi di società civile che si affacciavano alla politica. Invocando la discesa in campo di qualche imprenditore libero, invogliando personaggi come Berlusconi, e chiedendo al picconatore Cossiga di farsi capofila di una riforma presidenziale che coronasse la riforma di Segni (vista con scetticismo) e coalizzasse quel fronte politico. L’impresa dette i suoi frutti anche perché ci fu un segmento di cultura recettivo, ibridato a un segmento di giornalismo. In quella fase fu decisiva la direzione de l’Indipendente di Vittorio Feltri, che raccolse magari con minore peso culturale ma con maggiore efficacia giornalistica e diffusionale, quel discorso, aprendo alla Lega, alla destra missina e ai segmenti cattolici e liberali. Il Foglio sorse alcuni anni dopo e Giuliano Ferrara si accingeva alla sua traversata dal craxismo al centro-destra. Quanto contò quella discesa in campo della cultura e del giornalismo nella nascita e nello sviluppo del centro-destra? Credo non poco: dette un’impronta di credibilità, le ragioni di una coalizione, lo smalto di un consenso giovanile (molti lettori di quei giornali furono poi i ranghi e i dirigenti locali di An, e in parte di Forza Italia e della Lega). All’epoca iniziative editoriali come l’Italia settimanale ebbero anche una vasta risonanza in tv e sui giornali, a partire da Il Corriere della sera di Paolo Mieli; persino La Repubblica di Eugenio Scalfari fu attenta a seguire la nascita della destra agli albori dalla seconda Repubblica. Poi qualcosa rimase, qualcosa fu soppresso con l’ingerenza politica (l’Italia settimanale), qualcosa si disperse via via fino a divenire sempre più marginale. Il primo brutto segnale fu quando le riforme istituzionali non furono affidate a Miglio, che aveva teorizzato e proposto la Repubblica presidenziale o a Fisichella, Armaroli, Urbani ma al leghista Speroni. La cultura andò via via sparendo e defilandosi. Alla fine il bilancio fu deludente. Di quel patrimonio non era rimasto più nulla nei tempi ultimi del centro-destra, della Lega «introtata», del Fini deviato e del Pdl spaesato. Certo la politica non si nutre di cultura e letture; ma è una coincidenza che deve far riflettere se la vigorosa presenza di una cultura coincide con fasi di crescita politica e la sua scomparsa coincide con fasi di declino politico. Che sia il tempo di abbracciare la prepolitica, per uscire dalla deriva antipolitica e rifondare le basi della politica? Lo dico non certo pensando a gramscismi di destra, impraticabili e non auspicabili. E lo dico scendendo da un consolidato e assai motivato scetticismo, convinto che in momenti brutti e privi di riferimenti come questo, la cultura civile debba esercitare un ruolo, assumersi una responsabilità e perfino una provvisoria supplenza d’iniziativa, salvo ritirarsi quando è maturo il tempo della politica. La cultura che si riversa nella politica muore e l’intellettuale-militante è una figura malriuscita e di solito estranea a questo versante, ma la cultura che si nega sempre a ogni possibile e temporaneo compito civile, pur restando libera e radicata nel suo humus, patisce d’accidia e si vota per idealismo al cinismo. E smentisce una sua nobile indole e radice: l’interventismo. Anche allora, vent’anni va, vagavamo nel buio di una crisi feroce, senza sbocchi, senza leader, senza partiti...

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