lunedì 23 luglio 2012



IL PARTITO che VORREMMO Partiamo dalle cose concrete: Lo STATUTO . Onorevoli Parlamentari e Regionali non possono essere candidati a cariche di Partito. Possono fare max 2 mandati e poi tornano nel Partito per almeno una legislatura. Coordinatori Provinciali e di Circolo non possono partecipare ad elezioni e il potere decisionale spetta agli esecutivi regolarmente convocati. Bilanci trasparenti . IL PROGRAMMA . Una Destra possibile, realista aperta a tutto il mondo del centrodestra che vuole mantenere il sistema bipolare. Realmente liberale in economia senza assintenzialismi finalizzati al consenso ma con l'assoluta salvaguardia delle fasce " realmente " deboli. Nessuno che lo merita verra' lasciato solo. E soprattutto un vero , sentito NAZIONALISMO da cui far discendere tutti gli atti politici anche impopolari. Se nascera' un Partito cosi ci vedra' al suo fianco. Moreno

mercoledì 18 luglio 2012

modulo adesione

Per la richiesta di adesione e del modulo scivere a noididestra2012@libero.it






   LIBERA  ASSOCIAZIONE  CULTURALE

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Dichiaro di accettare le norme della Statuto. Autorizzo altresì il trattamento dei dati personali sopra 
riportati per comunicazioni legate all’attività del movimento.


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Il Presidente dell’Associazione        FIRMO MORENO





lunedì 16 luglio 2012

Il ritorno del Cavaliere

Si profila la sesta campagna (elettorale) d’Italia per Silvio Berlusconi. Lo scrive ilCorriere della Sera. Secondo i sondaggi, se scendesse di nuovo in campo alla testa di un «nuovo Pdl» (per il momento limitiamoci a chiamarlo così) il Cav avrebbe ancora un potenziale del 30 per cento, insufficiente per vincere le elezioni ma abbastanza consistente per condizionare qualunque ipotesi di alleanze dopo il voto del 2013. Qualche considerazione in ordine sparso.
Angelino Alfano ha chiuso. Non ha dato al centrodestra la riscossa di cui c’era bisogno. Il delfino resterà un eterno secondo. E con lui, forse anche quella folta pattuglia di 40-50enni che dovrebbero fare ala al Cavaliere, almeno secondo i suoi intendimenti, per «svecchiare» l’immagine del Pdl. I quali, non a caso, storcono il naso.
Berlusconi cerca una nuova immagine del centrodestra ma non scioglie i nodi politici di questi mesi sul governo Monti. Ancora manca un giudizio univoco sul tecnoesecutivo. Gli elettori vogliono messaggi semplici e diretti, e arriverà il momento delredde rationem, in cui i partiti dovranno esprimersi chiaramente su Monti e anche sul proprio operato, sia esso a sostegno o contrario. Beninteso, questa ambivalenza, questi tentennamenti riguardano tanto il Pdl quanto il Pd.
Ancora: sarà una partita giocata in difesa, tesa a contenere i danni più che a cercare la vittoria. Uno schema «catenacciaro», per usare una metafora calcistica: un modulo poco congeniale a Berlusconi, il quale ha sempre tirato le orecchie agli allenatori del Milan che non puntavano a giocare 90 minuti all’attacco. Non so se un Berlusconi «fuori ruolo» può esprimersi al meglio. Un ruolo di interdizione. Nel gioco degli scacchi, il ritorno del Cavaliere ha il sapore di una mossa che punta alla partita patta. Che però potrebbe aprire altre prospettive su altre scacchiere, compresa quella del Quirinale del dopo Napolitano.


Stefano Filippi

Anche la concertazione è una boiata

Mario Monti ha avuto ieri il coraggio di dire ciò che molti pensano, ma che pochi osano pubblicamente affermare: «La concertazione è la causa di molti dei mali attuali». Il paradosso è che a smontare il mito della concertazione inventata venti anni fa da un tecnico come Ciampi sia un altro tecnico. Ha ragione Monti: l’idea che anche il minimo dettaglio della politica economica di un Paese sia da contrattare con sindacati e organizzazioni imprenditoriali si è rivelata un gigantesco errore. Perché la riforma delle pensioni, per citare un caso, votata dal Parlamento liberamente eletto avrebbe dovuto essere preventivamente contrattata con le parti sociali? Può piacere o no. Questo non è il punto. Ma per quale ragione (se non il recupero di qualche nostalgia corporativa e antidemocratica) le scelte economiche che riguarderanno le prossime generazioni debbono ottenere il preventivo assenso dei sindacati di oggi? Il Parlamento a che serve?
La condivisione della politica economica con le parti sindacali negli ultimi vent’anni ha prodotto più tasse, più spesa pubblica e meno sviluppo. Abbiamo assistito a una favolosa traslazione delle responsabilità per la quale i governi che si sono succeduti sono da condannare (e ce n’è ben donde), ma le parti sociali con cui hanno condiviso tutte le scelte sono ancora lì a dettare le ricette per uscire dall’impasse. Il bilancino dei pesi ha sempre visto i sindacati come azionisti di maggioranza della concertazione. Le loro organizzazioni si reggono in gran parte proprio sui loro informali diritti di veto nelle questioni di politica economica. Berlusconi si è scontrato nel ’94, quando il suo governo aveva ancora velleità riformiste, proprio con il blocco sociale della concertazione. Poi è sceso a patti. E si è visto che fine ha fatto. Ma la concertazione si regge anche sulla gamba datoriale: dei padroni, come si sarebbe detto anni fa. Non è un caso che ieri a criticare l’uscita del presidente del Consiglio, oltre ai sindacati, sia emersa la voce (solitamente silente) del leader di Rete Imprese Italia, l’artigiano Giorgio Guerrini. Le piccole imprese sono state massacrate dalla concertazione: fatta e tagliata per le grandi e per i pensionati. Ma il leader dei piccoli più che alla sua pasticceria probabilmente pensa al suo futuro politico. Le nottate a Palazzo Chigi fanno dimenticare anche ai più sani degli imprenditori la storia e le esigenze delle proprie botteghe. La concertazione ha ammazzato la separazione dei ruoli. Sindacati e imprenditori che pensano di fare i politici. Governi che non hanno il coraggio di adottare misure non condivise con i sindacati. E Parlamenti che votano norme già contrattate altrove.


 Nicola Porro

Una riforma elettorale al nero di seppia

Credo ai simboli e considero un se­gnale il crollo dell’affresco "l’Allegoria di Roma" l’altra notte, proprio in quella sa­la storica. Una spiegazione ce l’ho anche se i periti e i partiti la negheranno...



«A Roma ci siamo e ci resteremo »; è la frase chiave della politica ita­liana e campeggia non a caso nella sala della Lupa dove fu proclamata la Repub­blica. Io credo ai simboli e considero un se­gnale il crollo dell’affresco «l’Allegoria di Roma» l’altra notte, proprio in quella sa­la storica. Una spiegazione ce l’ho anche se i periti e i partiti la negheranno: è stata la Seppia che ha sputato il suo nero in­chiostro per salvarsi. Mi spiego. Da alcune settimane assistiamo a una danza indecente delle Seppie nei fondali della politica. Tutti chiedevamo la rifor­ma della politica per abbattere i suoi co­sti e dimezzare la casta; per ripristinare il diritto costituzionale di scegliersi i pro­pri rappresentanti; per varare un siste­ma elettorale che consenta governi stabi­li e duraturi.
I partiti si dettero tre settima­ne per raggiungere un accordo. E può darsi che un accordo, implicito o segre­to, ci sia, ma opposto alle aspettative: la­sciare tutto come prima, salvo cosmesi.
Ogni giorno i partiti spruzzano propo­ste divergenti e strabiche, alcune troppo pretenziose, altre devianti. Il risultato fi­nale è il nero seppia. Ciascun partito-sep­pia spruzza il suo inchiostro, disperde gli astanti e fa perdere di vista gli obbiettivi. Oggi nessuna vera riforma è praticabi­le, i tagli promessi non ci saranno, le Ca­mere resteranno praticamente le stesse. I polpi parlamentari sono contenti: la Seppia Madre, benché bollita, ha salvato i suoi cuccioli. Anche se crolla tutto, la Re­pubblica e il suo affresco, «a Roma ci sia­mo e ci resteremo». Che idiozia e che schifo.

Quattro gatti vagabondi da Ascoli alla destra


Si chiama Progetto Itaca il nome prov­visorio di una Conventio - senza en­ne finale - che si terrà domani in un mona­stero nei pressi di Ascoli Piceno. S’incon­treranno persone e gruppi che non vo­gliono assistere inerti alla morte definiti­va della destra in Italia.
Destra morale e civile, culturale e so­ciale, prima che politica. È aperta a chi proviene da tutte le destre possibili, per­sino quelle scontente di essere destra (beceri esclusi). Non è contro nessuno.
Itaca vuol dire ritrovare l’origine, libe­rarsi dei proci, ripartire per il viaggio dan­tesco. Condivido quasi tutte le critiche al seminario e la voglia di stare in disparte. Servirà a pochissimo, lo so, ma è infinita­mente di più del Niente e dell’accidia che lo guarnisce. Vuol testimoniare, su­scitare e rispondere a chi chiede «ma voi nel frattempo dove eravate?». Noi c’era­vamo e ci provavamo, con disperata fidu­cia.
L’obbiettivo è ripartire dallo zero pre­sente e dalla Tradizione come continui­tà di ciò che è vivo. Ripartire dalla sovrani­tà, dello Stato e della politica, popolare e nazionale, sull’economia.
Ripartire dai giovani, dalle donne, da­gli outsider per una rivoluzione italiana. Ripartire dalle idee e non dai casi perso­nali. Salvare la politica dai politici e dai par­titi. Rivedersi. Animare una proposta co­munitaria, prepolitica e sociale, con stile e passione civile; tentare di riunire le for­ze sparse in campo. Quattro gatti, per carità, come fu nel ’92. Spesso si finisce come si comincia, in quattro gatti. A volte no, si diventa 444 e un grido può provocare una valanga.

domenica 8 luglio 2012

Due in più nella Casta

Lo si capisce meglio alla luce del fatto che le famigerate Province, assurte a simbolo dell'inutilità anche oltre i loro demeriti, non saranno abolite bensì accorpate con vantaggi vicino allo zero. Così come il taglio degli statali, a occhio, è più un annuncio che un fatto. Tanto che mercati e spread continuano nella loro corsa negativa come se nulla fosse successo, forse intuendo che nulla succederà di sostanziale. Vero è che poco è meglio di niente, che l'importante è iniziare e cose del genere. Ma la sproporzione tra annunci, squilli di trombe e realtà resta grande. Con la scure di nuove tasse sempre sulla testa. L'Iva salirà di altri due punti. Non oggi, ci dicono come se fosse un regalo, ma tra dodici mesi. Grazie, ma è la prova che i tagli non sono sufficienti neppure per garantire svolte nel breve periodo. E mi chiedo poi come facciano aziende e famiglie a ritrovare stimoli sapendo che la mazzata, nella migliore delle ipotesi, è già decisa ed è dietro l'angolo. Siamo nella situazione del malato terminale al quale il medico allunga la prognosi di qualche mese. Chi non vuole arrendersi non ha scelta se non quella, perso per perso, di provare a cambiare dottore. Che il buon senso dice non poter essere Grillo. Tornare a votare per mischiare le carte e trovare una nuova ricetta dovrebbe essere la via maestra. Ma i partiti tentennano, non hanno il coraggio. Nell'attesa chi può trasferisce le sue aziende, i suoi soldi e in alcuni casi anche se stesso all'estero, spogliando ancora di più le casse dello Stato e il Paese. Di biasimarli non me la sento, ormai rientriamo nella fattispecie della legittima difesa. Basta CARO MONTI TAGLIARE TUTTO L'INUTILE = tagliare TUTTO E muoviti NOI VOGLIAMO TORNARE A VIVERE !!!!!

IL MALE DI MOLTI PER IL BENESSERE DI POCHI...... ORA BASTA!!!!!



Alcuni esempi di retribuzioni di comuni della lombardia dei Dirigenti e direttori Generali.
Se li paragoniamo con stipendi di dirigenti di aziende medie Nazionali ti fanno rimanere davvero perplesso e con la grossa differenza che un dirigente di un Azienda può essere cacciato da un giorno all'altro. Andando nei vari siti dei comuni. ci rendiamo conto di come sia necessario se non indispensabile effettuare dei tagli anche su gli introiti dei dirigenti pubblici per utilizzare più soldi a favore dei cittadini dei nostri paesi e delle nostre Città.
Inoltre se andiamo a vedere i curriculum di alcuni dirigenti comunali ci chiediamo, come possano percepire indennità così alte,  persone che nella loro vita hanno maturato un esperienza limitata alla sola pubblica Amministrazione con passaggi diretti o promozioni Anomale; in confronto ai dirigenti di un Azienda non statale che ogni anno deve dare prova e risultati in base alle proprie capacità professionali.
Se poi andiamo a vedere gli stipendi di dirigenti di ASL, CDA, Equitalia, Inps, ecc, capiamo quanti soldi pubblici oltre la Politica vengono davvero buttati o sprecati.
Comuni che hanno Dirigenti sopra numero, comuni che hanno dirigenti che non servono,  basterebbero i funzionari per svolgere le stesse attività.
I sindacati che difendono questo mondo delle pubbliche Amministrazioni e degli enti Pubblici, dovrebbero solo sparire e smetterla di prendere soldi pubblici per rovinare il nostro paese generando ulteriore spreco. Dove sono i sindacati quando c'è bisogno di difendere i commercianti, le aziende Private, i liberi professionisti, le casalinghe e tutte quelle categorie che lottano ogni giorno per sopravvivere ???
Se andassimo a vedere nei vari siti dei comuni d' Italia ci renderemmo ancora più conto di quale grave situazione porti la Nostra Nazione sempre più all'autodistruzione.
IL MALE DI MOLTI PER IL BENESSERE DI POCHI...... ORA BASTA!!!!!


http://www.comune.lissone.mb.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2019
Comune di lissone

http://www.comune.triuggio.mb.it/upload/cpgakj202tvz0tyqtz0rsg0e769201202031103retribuzione%20segretario%202011.pdf

Costo del solo Segretario di un comune come Triuggio

Notizie dal Il Cittadino MB

Monza: premio produttività
per i dipendenti del Comune

http://www.ilcittadinomb.it/stories/Cronaca/253583_monza_premio_produttivit_per_i_dipendenti_del_comune/

Operazione trasparenza: ecco quanto guadagnano i dirigenti del Comune di Piacenza - IlPiacenza.it
La classifica piacentina dei dirigenti comunali è guidata dal direttore generale. Per lui, busta paga annuale da 179.040,00 euro. Fra coloro che guadagnano meno, invece, la comandante dei Vigili Urbani, 70.130,00 euro all'anno.

notizia dal sito del comune di Piacenza




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venerdì 6 luglio 2012

Perché la destra non è montiana

Caro Galli della Loggia,
non è affatto strabiliante, come tu scrivevi ieri sul Corriere della Sera, che la destra non si riconosca in Monti, così sobrio e moderato come i notabili della destra storica.

Lascio da parte le ragioni arcinote e contingenti: il governo dei tecnici fu calato da fuori e dall’alto e scalzò un governo di centro-destra eletto democraticamente. E lascio da parte anche la delusione per il suo operato: molte tasse e pochi tagli, troppe incertezze e scarsa attenzione anche a un elementare principio di destra liberale: anche se aumentano le tasse il prelievo fiscale diminuisce se si punisce chi investe, se si colpisce chi compra. Ma lasciamo da parte tutto questo, e veniamo al cuore del problema che sollevi. Ci sono buone ragioni di principio e di fatto che rendono incompatibile Monti con la destra, anche nella versione estesa del centro-destra. Il centro-destra ha avuto vita e consenso solo quando non è stato espressione di minoranze, di salotti e di poteri, ma quando ha sposato il primato della decisione politica e della sovranità nazionale e popolare. Non solo in Italia, anche in Francia con De Gaulle, in Spagna con Aznar, in Germania con Kohl. L’antagonista della destra di oggi non è il comunismo operaio e il proletariato ma la nuova borghesia radicale. Anzi per essere più precisi, l’antagonista della destra è il patto tra la sinistra politico-ideologica e la destra tecnico-economica, che idealmente fu sancito a Bologna tra Monti e il partito de la Repubblica ; a una cosa del genere, che potremmo chiamare la Bolognetta, dopo la svolta della Bolognina, siamo arrivati tramite Napolitano, con Casini e Fini nel ruolo di mosche cocchiere. La destra economica da sempre è stata avversa alla destra politica ed estranea alla destra morale. E Monti è un commissario rispettabile, ma legato per indole e curriculum ai circoli internazionali che sappiamo. Possiamo accettarlo come Eduardo accettò ’A nuttata , sapendo che passa, e che farlo cadere peggiorerebbe ulteriormente le cose. Ma non chiederci di sposarlo. La destra che tu e il Corriere ogni tanto profilate, è una destra di minoranza liberale, che odora di cent’anni fa, cioè prima della democrazia di massa, sobria e rigorosa quanto inefficace e impopolare. Senza tirare in ballo il fascismo, la «destra» nella Repubblica italiana si è affermata o col centro cattolico-popolare, cioè con i democristiani, o con la destra sociale, cioè nazionale e popolare, a volte anche monarchica ( il caso Lauro a Napoli). I liberali, pur degni, non incisero mai in modo significativo nella storia della Repubblica italiana, a parte alcuni isolati galantuomini. La destra, anzi il centro-destra, in Italia ha una sua storia e anche precisi riferimenti. Vuoi i nomi? Una destra larga e viva nel quadro bipolare si può richiamare, secondo le diverse sensibilità, a politici come Fanfani, Craxi, Pacciardi, Almirante, a tecnici come Enrico Mattei o Ettore Bernabei, perfino a leghisti come Miglio (e a qualche Papa). Tutti accomunati da quella linea decisionista, nazional-popolare, che assegnava alla politica la sovranità, non alla tecnica, alle banche o all’economia. E non è solo un retaggio fascista o peronista: anche i conservatori, da Burke a Tocqueville, fino a Fisichella, hanno sempre criticato il potere del denaro sulla politica e hanno sempre difeso la sovranità della tradizione su quella finanziaria. Quando degenera, quella linea si fa populista o popolana; ma se si parla di deriva populista nel centro-destra italiano si deve avere l’onesto coraggio di dire che dall’altra parte non si contrappone la democrazia liberale, bensì la deriva oligarchica, ovvero il patto implicito o esplicito tra i poteri economici e le caste intellettuali e giudiziarie, partitiche e sindacali di sinistra. E quanto a deriva populista, Di Pietro, Grillo e Vendola non ne sono certo immuni.

mercoledì 4 luglio 2012

Il caso assurdo di pazzia democratica

Dal terrorismo mediatico in atto sem­brerebbe che alcuni pazzi cattivi, natu­ralmente di destra, starebbero riapren­do i manicomi-lager in Italia per depor­tare e torturare i pazzi buoni La demagogia nuoce ovunque, ma fa più male quando è sulla pelle dei malati. C’è un’ennesima mobilitazione der valoroso collettivo de sinistra in difesa della legge 180, dogma intoccabile nonostante 35 anni di tragedie. Dal terrorismo mediatico in atto sembrerebbe che alcuni pazzi cattivi, naturalmente di destra, starebbero riaprendo i manicomi-lager in Italia per deportare e torturare i pazzi buoni. Ho letto il testo della legge approvata in commissione con i voti del centrodestra e non c’è traccia di riapertura dei manicomi; c’è invece la ragionevole esigenza di curare e tutelare i malati di mente e non lasciarli allo sbando come fece la legge di Basaglia, con la sua generosa ma nociva utopia, perno ideologico di Psichiatria Democratica. Follìa è credere che un demente grave sia in grado di decidere da solo. L’autore della nuova legge è uno psichiatra (di destra), Carlo Ciccioli, di Ancona; la legge è sostenuta da autorevoli psichiatri e dalle associazioni di familiari, e da oggi riprende l’iter parlamentare per farsi legge. Mi occupai più volte sin da ragazzo del tema perché al mio paese c’era un grande manicomio e denunciai i drammi sorti dalla chiusura al buio dei manicomi, con dementi e famiglie in balia di se stessi. Per superare i manicomi senza abbandonare i malati, don Pasquale Uva, fondatore di ospedali psichiatrici a sud, progettò 60 anni fa i villaggi postmanicomiali. Progetto precoce per il suo tempo e tardivo per lui. È tempo di ripensarci, anziché fermarsi all’intoccabile dogma di Pazzia Democratica.

lunedì 2 luglio 2012

Intellettuali di destra è il momento giusto di riscendere in campo

Vent’anni fa, in una fase di crisi della politica, la cultura non allineata a sinistra conobbe una grande vitalità poi scomparsa. È ora di ritrovarla Quell’estate del 1992 l’Italia era in ginocchio. Crollava pezzo su pezzo la prima Repubblica, finivano in galera i cassieri dei grandi partiti, si sgretolavano la Dc e i suoi alleati, sopravviveva il Pci sotto altro nome, montava l’antipolitica, s’invocavano i tecnici all’orizzonte, veniva svenduto il patrimonio pubblico del Paese, l’industria veniva coinvolta nell’onda nera della crisi e della corruzione che porterà poi ai sinistri suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mafia uccideva Falcone e poi Borsellino. Cresceva a nord la Lega mentre l’Msi vivacchiava ai suoi minimi storici e i referendum di Segni e la Rete di Orlando scuotevano la vecchia Dc già picconata da Cossiga, uscito da poco dal Quirinale. C’era poco da sperare che nascesse qualcosa sul versante opposto alla sinistra. E nessuno avrebbe allora immaginato che due anni dopo Berlusconi avrebbe vinto sulle ali della Lega nord e della Destra nazionale. Ma nel frattempo, la cultura non allineata a sinistra cosa faceva? No, non dormiva né si defilava, e il suo ruolo in quell’interregno non era poi del tutto irrilevante, anzi. Io vorrei ricordare che a quella strana alleanza si arrivò anche per opera di non pochi vituperati professori e non solo loro. Vi dice nulla Gianfranco Miglio nella Lega? E Domenico Fisichella nella nascita di Alleanza Nazionale? E Giuliano Urbani ma poi anche don Baget Bozzo, Marcello Pera, Lucio Colletti, Antonio Martino, Vittorio Mathieu, Saverio Vertone, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa in Forza Italia, nella destra Paolo Armaroli, con la Lega Marcello Staglieno? Non tutti furono ornamentali, soprammobili decorativi, anzi. E vorrei ricordare che nell’estate del ’92 prendeva corpo una voce che avrebbe avuto un ruolo di battistrada nella nascita del centro-destra. Dico l’Italia settimanale che poi debuttò nell'autunno di vent’anni fa. La fondai in quell’estate del ’92, dopo aver coagulato un piccolo mondo di lettori e di firme con Pagine Libere. L’Italia settimanale ebbe un triplice ruolo. Risvegliò la destra prepolitica dal sonno nostalgico e dal destino di scomparsa a cui si sentiva votata, attraverso un linguaggio spigliato e un’impronta giovanile e interventista. Fu trasgressiva sia nei recuperi proibiti che nelle contaminazioni, negli incroci. In secondo luogo, cercò di mettere insieme mondi e personaggi diversi, da Giorgio Albertazzi a Vittorio Sgarbi, da Gustavo Selva allo stesso Fisichella, da ex democristiani a neoleghisti (scriveva pure la giovane Irene Pivetti), da firme storiche della destra, come Accame, Cardini, Gianfranceschi, Cattabiani, Quarantotto, De Turris, Besana, Garibaldi, Mazza, Del Ninno, Malgieri, Nistri, Solinas, Cabona, Buttafuoco a battitori liberi come Massimo Fini, Oliviero Beha e Vittorio Messori, poi Guerri, Squitieri, più vari giovani redattori. In terzo luogo l’Italia settimanale si prefisse anche tramite la Fondazione Italia di far nascere in una prospettiva bipolare quell’ibrida alleanza tra il versante non travolto da tangentopoli della Dc e del craxismo, il vecchio Msi e quei pezzi di società civile che si affacciavano alla politica. Invocando la discesa in campo di qualche imprenditore libero, invogliando personaggi come Berlusconi, e chiedendo al picconatore Cossiga di farsi capofila di una riforma presidenziale che coronasse la riforma di Segni (vista con scetticismo) e coalizzasse quel fronte politico. L’impresa dette i suoi frutti anche perché ci fu un segmento di cultura recettivo, ibridato a un segmento di giornalismo. In quella fase fu decisiva la direzione de l’Indipendente di Vittorio Feltri, che raccolse magari con minore peso culturale ma con maggiore efficacia giornalistica e diffusionale, quel discorso, aprendo alla Lega, alla destra missina e ai segmenti cattolici e liberali. Il Foglio sorse alcuni anni dopo e Giuliano Ferrara si accingeva alla sua traversata dal craxismo al centro-destra. Quanto contò quella discesa in campo della cultura e del giornalismo nella nascita e nello sviluppo del centro-destra? Credo non poco: dette un’impronta di credibilità, le ragioni di una coalizione, lo smalto di un consenso giovanile (molti lettori di quei giornali furono poi i ranghi e i dirigenti locali di An, e in parte di Forza Italia e della Lega). All’epoca iniziative editoriali come l’Italia settimanale ebbero anche una vasta risonanza in tv e sui giornali, a partire da Il Corriere della sera di Paolo Mieli; persino La Repubblica di Eugenio Scalfari fu attenta a seguire la nascita della destra agli albori dalla seconda Repubblica. Poi qualcosa rimase, qualcosa fu soppresso con l’ingerenza politica (l’Italia settimanale), qualcosa si disperse via via fino a divenire sempre più marginale. Il primo brutto segnale fu quando le riforme istituzionali non furono affidate a Miglio, che aveva teorizzato e proposto la Repubblica presidenziale o a Fisichella, Armaroli, Urbani ma al leghista Speroni. La cultura andò via via sparendo e defilandosi. Alla fine il bilancio fu deludente. Di quel patrimonio non era rimasto più nulla nei tempi ultimi del centro-destra, della Lega «introtata», del Fini deviato e del Pdl spaesato. Certo la politica non si nutre di cultura e letture; ma è una coincidenza che deve far riflettere se la vigorosa presenza di una cultura coincide con fasi di crescita politica e la sua scomparsa coincide con fasi di declino politico. Che sia il tempo di abbracciare la prepolitica, per uscire dalla deriva antipolitica e rifondare le basi della politica? Lo dico non certo pensando a gramscismi di destra, impraticabili e non auspicabili. E lo dico scendendo da un consolidato e assai motivato scetticismo, convinto che in momenti brutti e privi di riferimenti come questo, la cultura civile debba esercitare un ruolo, assumersi una responsabilità e perfino una provvisoria supplenza d’iniziativa, salvo ritirarsi quando è maturo il tempo della politica. La cultura che si riversa nella politica muore e l’intellettuale-militante è una figura malriuscita e di solito estranea a questo versante, ma la cultura che si nega sempre a ogni possibile e temporaneo compito civile, pur restando libera e radicata nel suo humus, patisce d’accidia e si vota per idealismo al cinismo. E smentisce una sua nobile indole e radice: l’interventismo. Anche allora, vent’anni va, vagavamo nel buio di una crisi feroce, senza sbocchi, senza leader, senza partiti...